Alberto Vannetti: Un’idea della pittura
Quando Alberto Vannetti si è affacciato sulla scena dell’arte, a metà degli anni ottanta, era in corso in Italia una rivisitazione della pittura, un recupero di tecniche e linguaggi che veniva declinato in differenti maniere, tra transavanguardia, citazionismi, espressionismo astratto.
Allora la sua scelta di campo fu molto chiara: il suo rapporto con la pittura, che si nutriva dello studio e della conoscenza della tradizione dell’avanguardia, quanto dell’ “essere al centro delle cose”, (attraverso il confronto serrato avviato con gli artisti e i critici suoi coetanei dalle pagine della rivista romana “Opening” da lui cofondata) non abdicò alle tentazioni dei “ritorni”, e iniziò allora una ricerca originale e autonoma, che coniugava astrazione e raffigurazione.
Così sulle superfici astratte dei quadri si stagliavano particolari estremamente definiti del paesaggio urbano, come le antenne e il gasometro. Primo indizio che comunque la pittura di Vannetti guardava il mondo, non era autoreferenziale. E da quelle prime immagini il repertorio si è andato ampliando accogliendo l’iconologia di un sapere universale e ancestrale.
Proprio questa apertura verso il reale, ma anche verso la storia (dai simboli pacifisti alla figura di Gandhi come fiore di loto, mandala, carte geografiche, paesaggi planetari) ha comportato negli anni sucessivi l’urgenza di estendere, ingrandire il quadro, che infatti si fa stendardo.
Stendardi Alberto ha appeso ai balconi d Bomarzo, all’Università di Roma “La Sapienza” ed in altre sedi, riproponendo con forza la pratica e l’idea della grande decorazione e una concezione dell’arte che esce dal chiuso del museo per affacciarsi sulle strade, farsi guardare dai passanti, senza paura di poter ”abbellire” il quotidiano.
Anche l’uso del Tazebao si inserisce in questo percorso; in una sua mostra personale al Museo Laboratorio de “La Sapienza”, nel 2002, Vannetti realizza due enormi tazebao composti di centinaia di fogli di carta stampata e incollati direttamente alle pareti, trasformando completamente la spazialità del museo e sollecitando la percezione dell’osservatore.
La scelta della decorazione va di pari passo con un rinnovato interesse per le tecniche. Negli ultimi anni l’artista ha realizzato delle piccole formelle in ceramica che raffigurano personaggi che rimandano alla pittura italiana degli anni trenta, da Capogrossi figurativo a Pirandello.
I lavori qui esposti, collage e oli su tela, presentano un mondo di cose in dialogo tra loro: vasi, conchiglie, fiori, pianeti, case, navi, statue, interconnesse da rapporti alogici, ma di cui l’artista ci fornisce degli indizi.
Questo universo di “corrispondenze” ci si presenta formalmente ordinato: una struttura geometrica definisce lo spazio della superficie mentre il colore, sempre pulito, non cede a sbavature.
Un’esplorazione, come scrive l’artista “dentro la razionalità della geometria, l’equilibrio della forma e una simbologia che attraversa la storia e il contemporaneo”.
Si tratta ad ogni modo di una pittura che si fa racconto, che invita l’osservatore a seguirne le tracce, a entrare in un luogo un po’ misterioso e accattivante, per scoprirne gli enigmi.
Lucilla Meloni