di Stefano Taccone
La peculiare bipartizione cronologica, cui la selezione delle opere dà luogo, sembra riflettere tanto la vicenda dell’attività di Lidia Carrieri, che, avendo inaugurato la galleria omonima di Martina Franca a metà degli anni Settanta, distinguendosi per la promozione di tutte quelle tendenze votate allo sconfinamento nello spazio pubblico, allora giunte in Italia al loro apogeo, riapre due anni fa come Fondazione Noesi dopo un’interruzione quasi ventennale, quanto più ampie congiunture storiche, prima ancora che storico-artistiche. Se infatti la questione ecologica trova i suoi prodromi nell’alveo della critica al modello occidentale della fine degli anni Sessanta e si impone all’attenzione dell’opinione pubblica in seguito alla crisi energetica del 1973, ma viene parzialmente e temporaneamente oscurata dall’edonismo dei due decenni successivi, già nel corso degli anni Novanta comincia a riemergere con drammaticità crescente, per arrivare all’epoca attuale ove, in concomitanza con la crisi finanziaria, il discorso sulla “green economy” pare assurgere persino a moda.
Anche in rapporto a questa nuova sensibilità degli anni Settanta vanno osservati numerosi, e tra loro spesso assai diversi, fenomeni artistici, che non di rado dimostrano una valenza precorritrice più che una risposta a posteriori. Dalla estrosa ricreazione dello spazio della natura condotta da Pino Pascali, in vista di un «risarcimento fisico e fantastico nei confronti di una civiltà troppo meccanizzata e repressiva» (Alberto Boatto), un percorso che ha origine dal superamento delle stesse tendenze che maggiormente proclamano l’eclissi della dimensione naturale1, alla ricerca della verginità linguistica, della purezza archetipica sulla quale si fonda l’Arte Povera; da Piero Gilardi, i cui sgargianti tappeti-natura in gommapiuma scolpita e colorata costituiscono, al pari delle opere di Pascali, rappresentazioni dell’universo naturale in virtù di materiali artificiali, ma, a differenza dell’artista pugliese, non possiedono alcun valore di rigenerazione, suggerendo bensì la crescente impossibilità per l’uomo contemporaneo di un’esperienza naturale non adulterata, ad Hans Haacke, che con le sue “opere francescane” segna il passaggio dalla originaria fiducia neopositivista alla scoperta dello scollamento tra ricerca scientifica e progresso umano in ambito capitalistico. Più problematico invece ricondurre a tale temperie, almeno su di un piano generico, gli interventi della Land Art se, malgrado l’appellativo di “arte ecologica” col quale spesso ci si riferisce ad essi e pur derivando effettivamente da un autentica tensione per il puro e l’incontaminato, presuppongono quella che Achille Bonito Oliva chiama “antropologia del cow-boy”.
Dalla critica al pensiero positivista ottocentesco, prima ancora che neopositivista, cui però, in netta antitesi col connazionale Haacke, corrisponde una esplicita rivendicazione delle proprie radici nel romanticismo tedesco, prende le mosse Joseph Beuys, le cui singolarmente affascinati quanto ancora notevolmente controverse pratiche testimoniano forse del più originale e significativo incontro tra arte e natura dell’intera vicenda moderna. Se infatti, con il suo tipico atteggiamento da sacerdote laico, va predicando un’arte che, secondo una concezione considerevolmente allargata del concetto, segnata da non superficiali tangenze con Fluxus, con il quale d’altra parte intreccia materialmente il suo percorso, diviene veicolo dell’energia creativa di ogni individuo e conseguente strumento col quale plasmare l’ambiente circostante, concezione demiurgica cui va ricondotta la celebre espressione “scultura sociale”, tale discorso permane con ogni evidenza assai distante da qualunque esaltazione indiscriminata delle potenzialità umane e tanto meno, com’è ovvio, indulge ad una qualche legittimazione di pratiche prevaricatrici nei confronti della natura.
L’uomo agirà su di essa rispettando, anzi assecondando, le sue leggi e «se l’umanità fallisce», scrive lo stesso Beuys, sfoggiando toni apocalittici peraltro in lui alquanto inconsueti, «la natura avrà una vendetta terribile, una vendetta terribilissima che sarà l’espressione dell’intelligenza della natura ed un tentativo di riportare gli esseri umani al lume della ragione attraverso lo strumento della violenza». Paradigmi di un rapporto di collaborazione adeguato con la natura diventano così azioni come quella delle 7000 querce piantate a Kassel in Germania o dei 7000 alberi di specie diverse piantati a Bolognano in Abruzzo, che «non costituiscono solo un risultato ecologico, ma principalmente un tentativo di dare forma allo sviluppo e alla coscienza dello spirito, lungo un cammino che porti gli uomini e la Natura a un rapporto di maggiore solidarietà e responsabilità individuale e sociale» (Lucrezia De Domizio Durini). Rappresentano insomma mirabili dimostrazioni del rapporto di sostanziale interscambio, quasi d’identità, tra discorso antropologico ed ecologico, così eloquentemente espresso da un altro passo dell’artista tedesco, «…noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi, poiché apparteniamo l’uno all’altro e dobbiamo esistere insieme», da considerarsi il vero cardine del pensiero beuysiano.
Dalla tradizione agraria ed artigianale del Meridione d’Italia, con i suoi riti e le sue credenze, la cui rievocazione, non aliena da istanze di denuncia nei confronti dei processi devastanti e dell’industrializzazione, appare costantemente condotta lasciando trapelare una peculiare vis ironica, trae invece evidente alimento la svolta ecologica che il compianto Mimmo Conenna fa registrare nel corso degli anni Settanta. Operazioni come La moltiplicazione dei pani colpiscono per la mirabile sintesi tra la linearità strutturale del dispositivo, semplicemente mucchi di spighe che, disseminati sul pavimento, della galleria, preventivamente ricoperto di carta copiativa, si “moltiplicano” appunto in virtù del deambulare degli spettatori, e pregnanza d’evocazione che ne scaturisce. Formidabile reminiscenza di antiche usanze, in parte intrecciate a motivi mitico-religiosi, in quanto accostabile, secondo l’artista stesso, «agli scritti largamente usati e diffusi nei tempi antichi in cui si davano notizie sulle strade che univano le città aventi tra loro rapporti commerciali o d’altra natura» è la riproposizione visiva del percorso che lo conduce da Bari, sua città natale, fino a Martina Franca, ove, come un novello re mago, pone la sua stella cometa, costituita da cassoni di legno contenenti pietre, sul sagrato della cattedrale.
Spetta ad un altro artista pugliese attivo in quegli anni, Antonio Paradiso, evidenziare in termini più strettamente drammatici (e traumatici), surreali eppure assolutamente effettivi, le mortificazioni inflitte alla natura dalle ragioni del profitto, turbando la quiete pubblica con uno spettacolo che, a distanza di oltre trent’anni, nel corso dei quali si assiste ad un progressivo incremento delle ricerche sugli organismi geneticamente modificati e si perviene di conseguenza alla brevettabilità del vivente, non può che apparire nella sua valenza precorritrice, quello fornito dal possente toro Pinco in atto di montare una vacca meccanica per l’inseminazione artificiale nell’ambito della Biennale di Venezia del 1978. «Sono decenni che i tori non vedono più una femmina vera», commenta all’epoca lo stesso Paradiso esplicitando il senso della vicenda.
Di natura intesa come impulso all’accoppiamento tipicamente animale, ma ricondotto al caso specifico del genere umano, discute anche Urs Lüthi, il cui intero lavoro è notoriamente teso a costruire un’iconografia in grado di riportare alla luce, in stretta relazione con la propria biografia e dunque facendo ampio uso dell’autoritratto, quei casi d’identità sessuale tradizionalmente condannati al silenzio ed all’invisibilità in quanto difficilmente riconducibili ad una doppia polarità di genere. Entrambi i protagonisti del dittico fotografico, avvolti e protetti dalla penombra nel loro atto di effusione, pur alquanto differenti fisionomicamente, non sfuggono a quel carattere di ambiguità identitaria che connota inconfondibilmente l’immaginario dell’artista svizzero.
La focalizzazione su quanto è socialmente emarginato, rimosso, oscurato, benché oggetto specifico e modalità dispiegate divergano completamente, accomuna a Luthi la breve ma significativa parabola del napoletano A/social group, protagonista di una interessante quanto pionieristica esperienza relazionale, in stretto rapporto con l’equipe medica (o meglio con la parte più avanzata di essa), ma soprattutto con i degenti stessi, con i quali si cerca di instaurare un dialogo paritetico, presso l’Ospedale psichiatrico Frullone di Napoli. La stato di privazione di identità e di repressione della creatività, additato dai processi di identificazione messi in atto dal collettivo, trova una eloquente esemplificazione nell’azione che Gerardo Di Fiore, memore delle categorie della psicologia aristotelica, conduce introducendosi vestito, e poi denudandosi integralmente, in un grosso vaso di terracotta proveniente dal giardino del reparto, gesto immediatamente imitato dai degenti, per ricordare cos’è la Vita vegetativa.
Una profonda attrazione per gli elementi primordiali (l’acqua, il fuoco…), ma difficilmente riconducibile ad una qualche istanza di carattere sociale, dimostra Fabrizio Plessi, volto piuttosto ad una elaborazione spettacolare che, non tirandosi indietro di fronte alle ampie scale dimensionali o alle tecnologie complesse, lambisce il confine tra realtà ed illusione. È appunto il caso della monumentale Reflecting Water che, basata, come il titolo stesso è in grado di suggerire, sull’effetto speculare della proiezione dell’enorme scritta luminosa (20x120m) sulla superficie del lago Bertasee a Duisburg e leggibile soltanto in acqua, assume una spiccata valenza tautologica.
L’interesse per l’archetipo si sposta dalla materia alla forma nella complessa e poliedrica Mirella Bentivoglio, che adatta il suo consueto emblema dell’uovo al contesto specifico della Valle d’Itria, la terra dei trulli, e, in particolare, di Martina Franca, dove Via Perla, per la presenza di una fontanella in ghisa degli inizi del secolo che le permette di instaurare una peculiare interazione concettuale («il segno acqua», ricorda, «è inciso nell’inconscio come elemento femminile»), le appare il sito più adatto al suo uovo-trullo, da costruire, al pari delle tipiche abitazioni pugliesi, interamente di “chianchelle”, ma purtroppo mai effettivamente realizzato secondo il progetto originario. Se «nel rigonfiamento del cono, nel arrotondamento il trullo sembra mantenere una memoria del segno femminile», l’intervento della Bentivoglio è leggibile come passaggio dal “trullo patriarcale”, nient’altro che un “mezzo uovo”, ad un “uovo totale”, il simbolico uovo-trullo appunto, «dedicato alla matrice della casa».