Nei primi anni 70, quando il graffiti, così etichettato dalla società, ma non da coloro che lo facevano, i writers, fu per la prima volta preso in considerazione come fatto culturale, non fu ben accolto in America o non lo fu affatto.
Secondo l’opinione generale, il graffiti era sgradevole ed offensivo: fu infatti considerato come un’attività illegale, un sottoprodotto del gangsterismo teen-ager, punibile con la prigione se colto in flagrante. L’Europa sembrava invece più entusiasta, anche se lo considerava più che altro un fenomeno di arte etnica, folk. Quando ho incontrato Phase II nel 1973, egli apparteneva ad un gruppo chiamato United Graffiti Writers. Questo era un gruppo di graffitisti che, potrei dire, erano diventati un po’ troppo vecchi per lavorare nelle metropolitane, ed in cui era maturata collettivamente la coscienza di essere artisti e di poter inserirsi nel mondo dell’arte. Dipingere su tela, cercando di non “colpire” (lasciare il proprio segno su una superficie, come un treno, un muro ecc. appropriandosene), era diventato per loro una sorta di catechismo. Ricordo che Phase II, uno dei più rispettati maestri di questo gruppo, mentre ripeteva diligentemente il nuovo slogan, ricopriva il tavolo, la sedia e tutto ciò che gli era vicino, con il suo tag.
Niente riusciva a contenere il suo riflesso interiore di “colpire” e in un certo senso vi era una contraddizione interna alla loro filosofia (che a questo punto era embrionica, vis-à-vis con il mondo dell’arte).

D’altra parte, nel momento in cui accettavano la tela come unica superficie su cui lavorare, cominciava il loro indebolimento, poiché ciò significava riconoscere che “colpire” voleva dire deturpare.
Nessuno ha veramente approfondito la loro situazione, ed in generale questo primo tentativo del graffiti di entrare nel mondo dell’arte è fallito. In quel momento la corrente dominante era la lyrical abstraction, da cui le opere dei graffitisti non erano lontane, se si pensa alle belle lettere vividamente colorate, vaporose e quasi astratte. Questa corrente però era ancora molto forte e la cultura ufficiale non accettava niente che venisse dai margini, contrariamente a quanto è invece accaduto nel 1980, quando centro della cultura erano i clubs più che le gallerie. E infatti il processo di inserimento degli artisti emarginati del graffiti nel mondo dell’arte è avvenuto proprio attraverso i clubs e la vita notturna.
Un interessante parallelo di comportamento ed aspirazioni si stava formando tra downtown bianca e uptown nera. Nel club CBJB’S della downtown trionfava il raw-rock, i giovani cercavano di riportare il rock n’roll alle sue origini, rendendolo meno commerciale. Analogo tentativo si stava facendo nella uptown al club Back Door, nido della Breack dancing e della Hip Hop music, per la disco.

In questo momento di euforia culturale, in cui si fondevano musica, ballo e visuals, gli artisti graffiti si inserirono nell’ambiente della New Wave. Per il mondo dell’arte dei bianchi, l’ambiente più chic era quello dove c’erano gli artisti graffiti: c’era la musica migliore, le più belle feste, l’arte più veloce, l’energia più intensa. Fu un periodo di reciproca maturazione che veramente unì i giovani artisti, che venivano dalla scuola d’arte, come Keith Haring e Sharf, gli artisti della New Wave, che venivano dai clubs, come J.M. Basquiat e gli artisti graffiti che salivano dalla metropolitana come Phase II e Rammellzee. L’intero movimento, che comprendeva giovani artisti con diversi stili e backgrounds, fu chiamato Graffiti, e rappresenta tuttora il fenomeno più unico nella storia dell’arte: in nessun altro periodo artisti di 20 anni hanno lavorato professionalmente diventando il centro della scena dell’arte.
Il graffiti si può quasi considerare come la legittimazione del mondo teen-ager. Ci fu una mostra alla galleria di Sidney Janis, che cercò di mettere in risalto l’aspetto pop del graffiti ed altre mostre di gruppo come questa, che tentarono di far vivere il graffiti come movimento e di inserirlo nel mercato.
Ma la maggior parte di chi comprava considerava i lavori degli artisti etnici come souvenirs, e d’altra parte per i giovani graffitisti vendere a 100 dollari o 10.000 dollari qualcosa per cui di solito andavano in galera era troppo bello, ma anche comico.

La grave responsabilità che ha la cultura ufficiale nei confronti di questo momento storico dell’arte, in cui tutto sembrava funzionare magicamente, è di aver negato agli artisti graffiti della metropolitana quella attenzione e quella guida che normalmente riceve qualsiasi artista che esca da una scuola d’arte, per cui il passaggio da un sistema culturale, in cui erano già maestri, all’altro in cui era tutto da conquistare, per molti di questi artisti è stato un fallimento. È triste constatare quanto sia stato vano lo sforzo consapevole che gli artisti graffiti hanno fatto per adattare il proprio lavoro al nuovo pubblico dell’arte.
Dondi, per esempio, ha dedicato due anni del suo lavoro per iniziare questo pubblico al mondo underground. Rammellzee apparve come una cometa.
Egli rigurgitava come un oracolo, una macchina messianica di teoria l’esperienza gotica e la conoscenza della lettera; la sua parola era la somma di questa cultura underground.

Agli inizi degli anni ottanta, nella mappa della nuova arte si potevano individuare quattro direzioni cardinali, che erano le nuove quattro differenti manifestazioni dell’immagine. Una di queste era la Transavanguardia, l’altra era quella che io chiamo i “media-imagists” americani, il cui background era la Cal-arts Metropictures. Una terza corrente, conosciuta come “Colab”, affiancata da altri gruppi come il “Grand Gangsterism”, non era molto considerata nel mondo dell’arte, ma influenzava la realtà urbana attraverso volantini fatti a mano per gli avvenimenti della musica e del cinema, per le esibizioni di piazza. La quarta è il graffiti, come si è sviluppato nel 1980, quando la lettera diventa immagine, perde quasi la sua leggibilità e diventa entità pittorica.
Quando si parla del graffiti come di un fenomeno antropologico, penso che bisognerebbe distinguere le singole personalità artistiche del fenomeno in generale.
Le metropolitane sono una realtà urbana non paragonabile, sono come le vene della città, ed i treni sono come tropi, metro-tropi; tutto ciò è molto gotico.
L’artista graffiti esprime il senso interrazziale di New York, e in ciò consiste quella che io chiamo realtà pan-culturale. Il problema è l’esistenza di un razzismo culturale manifesto, quando compito dell’arte sarebbe far coesistere le diverse culture.
Alcuni artisti della transavanguardia, come Clemente, esprimono attraverso il loro lavoro questa realtà pan-culturale. Quale cultura può stabilire l’eticità di un artista?
L’artista in sé è l’unità morale, lo schermo per giudicare ciò che è giusto. Come tra gli artisti della transavanguardia, è specialmente in Clemente che ritroviamo questa immagine corretta dell’etica pan-culturale, tra gli artisti graffiti è Rammellzee che si occupa dell’eredità corretta dello slinguaggio come multilingua e della corretta diseredità del linguaggio, inteso come linguaggio nazionale.
L’ingresso degli artisti graffiti nel mondo delle gallerie fu un fallimento per l’esistenza di questo razzismo culturale.
Del triumvirato Keith Haring, Basquiat e Rammellzee, solo Rammellzee ha lavorato sui treni, e questa esperienza è alla base della sua teoria della lettera. J.M. Basquiat è stato il primo ragazzo nero ad avere successo e potere, e questo è l’unico motivo della sua fama tra i graffitisti; la sua presenza dava prestigio, ma ciò che li univa era solo la musica. Egli infatti non aveva niente a che fare con il graffiti della metropolitana, e anzi ha combattuto sempre questa etichetta, né d’altra parte nella teoria di Rammellzee c’è spazio per il lavoro di Basquiat.
Keith Haring non viene certamente dalla metropolitana. Egli ci andò colpito dall’entusiasmo dei giovani graffitisti e incuriosito dalla velocità del loro lavoro e dalla forza grafica e pittorica dei loro tags.
Haring veniva da una scuola d’arte e non ha mai lavorato sui treni, ma negli spazi rettangolari destinati alla pubblicità. Infatti, al contrario dei graffitisti, per i quali il rumore, la velocità, la possibilità di trasmettere a milioni di persone il proprio messaggio, era il sogno futurista, Keith Haring ha intuito e usato l’incredibile comunicabilità del lavoro fatto nella metropolitana.
I disegni di Keith Haring erano sparsi negli spazi della metropolitana come delle sequenze di films, da vedersi ciascuna in un posto diverso, e quando Haring è tornato nello spazio della galleria con il suo lavoro, molto intelligentemente vi ha trasferito l’idea dello “spazio trovato”.
Al di là di tutto questo, la differenza che c’è tra Haring e Rammellzee è che alla costante, secondo la quale si sviluppa il lavoro di Haring, si contrappone la concezione dinamica che ha Rammellzee del proprio lavoro.
Quando è entrato nel mondo dell’arte Rammellzee mi ha detto: “Non sono un artista, Rammellzee è un’equazione, e io entro nella scena dell’arte soltanto come un gangster”, ma come gangster egli dava più di quanto prendeva.

Rammellzee non ruba niente al mondo dell’arte, infatti non lo riconosce; egli usa a suo vantaggio la “super struttura”. Rammellzee è il cavaliere dell’arte, è come il dandy della lettera armata. Nello slang, “to take out” è il richiamo di guerra e Rammellzee vuole eliminare gli artisti come Basquiat, Clemente, Schnabel, ma non le persone fisiche, bensì la loro arte e quello che essi rappresentano.
Rammellzee non vuole essere violento con delle persone specifiche, il suo linguaggio è pieno di metafore del gergo militare. E’ la lettera armata che combatte con gli altri simboli armati, è una guerra di simboli.
Rammellzee continua ad essere etichettato come graffitista, nonostante sia rimasto isolato anche dagli altri writers. Rammellzee ha fatto il Futurismo Gotico, il Panzerismo Ikonoklasta, il Thagism, ma continua ad essere chiamato graffitista, quando gli stessi writers non si sono mai definiti tali. Il suo lavoro sulle note musicali, sulle note atomiche, le lazer sculptures, le out-door sculptures, che si muovono con l’energia del vento, non si vogliono considerare uno sviluppo del linguaggio, già abbastanza complesso, del periodo della metropolitana. A mio avviso alla base di tutto ciò c’è la paura di accettare le proiezioni del mondo fantastico di Rammellzee, che per lui sono antiche come la lettera.

Ritornando a quanto ho detto prima, a proposito di quegli artisti di New York, il cui lavoro Rammellzee combatte, Schnabel mi fa pensare a un mostro tossico di un film giapponese, che si ciba del nostro passato borghese, del nostro materialismo tossico mitizzato.
Schnabel per me è il passato, Rammellzee è il nuovo e il futuro.
Rammelzee, oltre ad essere un artista, è anche un teorico e questo, se da una parte è servito a mantenere vivo l’interesse della West-Broadway per il graffiti in generale, dall’altra ha incuriosito notevolmente gli studiosi di semantica.
Nel 1980 Rammellzee disse a un suo amico nero: “Il potere si serve del linguaggio per controllarci, ma se noi possediamo la lettera, siamo padroni del nostro destino”. Il lavoro dei graffitisti nella metropolitana si è sviluppato dai tags alla lettera, con lo scopo di trasformarne la struttura, per impedire al potere di riconoscerla. Quest’idea del possesso della lettera non può non farci sottolineare che la cultura della lettera come noi la conosciamo, è stata superata dalla cultura del computer; in un certo senso è come se la lettera avesse perso la sua funzione, e fosse libera dal passato, e persino dal futuro, e le fosse così permesso di entrare in una realtà pittorica. La scultura che Rammellzee ha fatto a Martina Franca (METTROPPOSTTERSIZER – EPILOGUE FUTURISM THE WEATHER VAINER 720 Z), va oltre tutto questo, e la lettera cum machina entra nel regno della dimensione infinita.

Edith Deak

Testo tratto dal catalogo “Rammellzee The Equation” Galleria Lidia Carrieri – Roma, 1987

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