Pino Pascali, Trappola chiusa, 1968 [lana d’acciaio intreciata - cm. 300x200x200]Quali i segni di una collezione? Quali le tracce di una figura di amatore, capace di trasformare il suo itinerario in un percorso di lettura dell’arte? Cosa c’è in una raccolta o in un piccolo assortimento di opere “contemporanee”? Cosa si serba tra il senso e il non senso di un oggetto conservato? A queste domande decisive, incalzanti, risponde una qualsiasi raccolta, sia se realizzata sul criterio di un forte e grande collezionismo abilitato alla forma di riconoscimento accattivante e liberal dell’establishment, sia se si articola in una forma di “collezionismo alternativo” che scaturisce dall’esperienza di una galleria o di un mercante d’arte degli anni Settanta, alle prese con i conflitti dell’economia della piccola e grande corsa storica. Ogni collezionista, con il suo sforzo intellettuale di avvicinarsi all’opera di un’artista, di capirne le ragioni e di pensare di acquistare e poi conservare l’oggetto della creazione, scopre la complessità di vivere il sistema dell’arte e misura con amara consapevolezza le conseguenze e le ragioni di un grande o di un piccolo contenitore. La verità dell’opera in questo caso è il contatto stesso che il collezionista stabilisce in un tempo prolungato con l’opera, come oggetto fisico e come messaggio artistico.L’opera è la costante materialità del suo senso, essa è sempre uguale a se stessa ed al suo divenire, fisicamente composta della sua forma, del suo contenuto e del suo rinnovarsi, ieri come domani, domani come oggi. Essa appare, ma contemporaneamente “è”, nella sua autenticità e nel suo stato di visione. Il collezionista, incamminandosi verso l’opera, si incammina verso la sua verità. Essa rispecchia il suo passato, che in breve si vivifica e si rinnova attraverso il nostro presente. Ma poiché il presente è la contingenza dell’opera, il futuro è il suo stato di conservazione! Con l’opera cade l’unico muro ordinario che divide passato e futuro della forma, della matericità e dell’esistenza stessa del manufatto. Infatti, soltanto la memoria del passato dà senso all’esistenza di una qualsiasi collezione e fa nascere il desiderio della durata.Come può un’opera, e dunque una collezione, perdere il passato? Il racconto di questa piccola storia è nel percorso di vita e nell’esperienza di Lidia Carrieri. Gallerista pugliese che esordì a Martina Franca negli anni Settanta con l’organizzazione di mostre sui media, i fotografi e i fotopittori dal 1887 alla seconda metà del ‘900. La Carrieri, essendo passata attraverso mostre sulla “fotografia come analisi sociale”, il fumetto politico e la satira, gli Incontri di Martina Franca curati insieme ad Enrico Crispolti e Vittorio Fagone, la conservazione di artisti del territorio come Pino Pascali, la scultura pubblica e poi il graffitismo americano, nonché l’origine del Medialismo, oggi per un’assunzione di responsabilità culturale si trova ad essere la promotrice – primis in pares – della Fondazione Noesi per l’Arte Contemporanea. Un’istituzione giovane e piena di buona volontà che nasce nel Sud d’Italia, a ridosso del “pensiero meridiano”, ovvero in una città che risente di quella cultura barocca così largamente diffusa in tutta la Puglia. Infatti in una antica costruzione del ridente centro storico, conosciuto come Palazzo Barnaba, che nelle sue fondamenta ricorda molto Palazzo Motolese o Palazzo Grassi, si è domiciliata la neo-Fondazione Noesi. Una Fondazione che già dalla sua intestazione, pur avvalendosi dell’antologia dell’operatività culturale più che trentennale della Carrieri, prescinde da personalismi e guarda dritto alla riorganizzazione della memoria storica ed al progetto futuro per rigenerare un’attività che ha propalato stili, tendenze, pensieri, idee e interpretazioni di opere del tutto intelligibili alla loro eteronomia.La “FondNoesi” prende il nome da un linguaggio fenomenologico, che dagli anni sessanta in poi è stato molto in voga nell’estetica artistica delle seconde avanguardie. Infatti, “Noesi” (che in inglese si esprime con noetic, in tedesco con noetik e in francese con noétique) nella terminologia di Husserl mostrava l’aspetto soggettivo dell’esperienza vissuta, costituito da tutti gli atti di comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il “percepire”, il “ricordare”, “l’immaginare”. Husserl parla del concetto di Noesi nella prima parte delle Ideen… (stampata nel 1913). In effetti, la Fondazione si è data questo nome per insistere sin dalla sua intestazione su un’arte che badi molto al nous, all’intelletto, ovvero all’atto stesso dell’intendere artistico e quindi considerare effettivamente l’azione della noesis come il gradino più alto della conoscenza artistica. Non considerare, quindi, l’opera d’arte come un manufatto in sé e per sé, ma come un oggetto volontario che riesce a stimolare l’intellezione, il grado più aperto e ampio del conoscere, pensando alla radice antropologica dell’oggetto dell’arte come ad una totalità aperta e sempre pronta ad interagire col pubblico. Visto che per Husserl la noesis è l’elemento soggettivo dell’intenzionalità, la Fondazione considera ogni gesto artistico, ogni azione, ogni performance, ogni evento che ha lasciato una traccia nel percorso attivo e trentennale della Galleria Carrieri come un atto di consapevolezza culturale, in grado di sviluppare altri eventi ed altre forme propositive e energetiche. Naturalmente, spiegare il cammino a ritroso di una collezione come quella che oggi è sotto il nome di “Noesi”, senza fermare l’ansia di dire le cose più importanti accadute nel percorso “dell’attività Carrieri” tra Martina Franca e Roma, significa rendere poco appetibile la passione e le intenzioni conoscitive, oltre che estetiche, di chi ha tentato di pescare perle nel mare magnum dell’arte contemporanea! Dunque, si diceva di non aver paura della minaccia della necrosi del passato. L’opera è la vera testimonianza di come i ricordi dell’arte non sono oggetti autodistruttivi, chi li eredita ha davanti dei personaggi-spia che raccontano una storia. Ad un certo punto della vita si perde la speranza di poter cambiare le cose. L’esistenza non fermenta più, sembra essiccarsi, ma l’opera pur essendo ridotta al passato introduce, tramite mille fili, in un viatico senza tempo, in una comunione con la “Noesi”: maturità, giovinezza e infanzia delle sue forme e dei suoi messaggi. In essa ovunque si scoprono nuove e vecchie dimensioni, progetti, piani, idee, pensieri attraverso cui si giunge al punto che la sua storia può essere la storia del nostro presente, così come appare per la celebre trappola di Pino Pascali! Quest’opera, che porta il nome di uno scritto famoso del 1596 di Giambattista della Porta e di un famoso dramma di Agatha Christie del 1952, per sorte è il simbolo della Fondazione Noesi (conservata dalla Carrieri per circa un ventennio), l’emblema paradigmatico di un’attività improntata sulle frontiere di una ricerca artistica che rimane a ridosso tra la tradizione territoriale ed il lavoro di scoperta e di rinvenimento internazionale. Infatti, i nomi degli artisti della collezione Noesi parlano da soli, sia come artefici dotati d’importanza mercantile, sia come autori di nicchia e di confine tra una pratica stilistica e l’altra, che più che altro tendono a rappresentare la radicalità e la sperimentazione di un breve periodo della storia degli ultimi quarant’anni. Proviamo a ricordare qualche nome: Pino Pascali, Antonio Paradiso, Nicola Carrino, Fernando De Filippi, Silvio Wolf, Alfredo Jarr, Carlo Guaita, Per Barclay, Emilio Fantin, Maurizio Cattelan, Bernarde Joistene, Tommaso Tozzi, Maurizio Arcangeli, Mario Schifano, Orlan, Peppe Desiato, Luca Vitone, Stelio Maria Martini, Giuseppe Chiari, Joseph Beuys, Fabrizio Plessi, Mauro Staccioli, Rammelzee, IFP, Urs Luthi, Keith Haring, Ronnie Cutrone, Daze, Phase too, Futura2000, Toxic, Mario Cresci, Fabio Donato, Christina Kubisch. All’istante, è facile capire, che in questo elenco non c’è un carattere sistematico. In questa panoramica di autori, si evince un modus operandi che esprime diverse forme di collezionismo storico e d’attualità. Un collezionismo che, come abbiamo detto poc’anzi, si divide tra l’esperienza dell’operatore culturale, quella del mercante, del gallerista e del raccoglitore di opere – come diceva Baudrillard in una vecchia accezione de Le systemé des objects (Paris, 1968) – “fornito di progetti”. Diciamo che la figura del collezionista, gallerista e poi mercante, in sostanza una figura di operatore culturale anomalo che ritroviamo dopo il ’68, si divide tra l’accezione che ne dava Baudrillard (gioco tra esteriorità sociale e relazioni umane), quella che aveva fissato Mario Praz (maniaco) e quella che ricorda Walter Benjamin in una competenza assai attuale (noetico e intermittente).Ribadiamo pure che la generazione che nel campo galleristico-collezionistico si è attivata subito dopo il ’68 è stata una generazione particolare che ha operato la decostruzione definitiva del collezionismo storico producendo tante figure di outsider e di anomali. Tale generazione riguarda una grande fascia di operatori, di figure di attivatori, di macchinisti e di semplici addetti che si sono divisi tra compratori, conoscitori, responsabili o apologeti dell’impianto o della rete sistemica. La ventata di innovazione che arrivò con “LA PENSÉE ‘68” ha sicuramente influito sui modi e i comportamenti dell’organizzazione artistica che si è poi manifestata sin dagli anni Settanta. Diciamo pure che, a partire dalla generazione post-68 collezionare non significa più possedere solo oggetti, non si tratta più di autoaffermare la propria identità attraverso un processo continuo di reificazione dei valori artistici, ma piuttosto il bisogno di curare una nuova forma di manifestazione culturale che si confronti col mercato e quindi con le regole dello scambio, ma che contemporaneamente si muova anche nell’ambito di una nuova strategia di distribuzione del prodotto e del protagonismo galleristico all’interno dell’industria culturale. Il mercante, il gallerista e il collezionista sono figure che spesso si incontrano attraverso il nuovo volto dell’operatore culturale, un soggetto in grado di mettere in discussione la pura passionalità dell’arte, l’unicità del proprio lavoro e di quello artistico e la disabilità di una classificazione incestuosa della macchina-opera e della sua stessa legittimazione. L’operatore culturale degli anni ’70 comincia a mettere in discussione la possessione dell’opera, a non considerare il lavoro artistico come frutto delle proprie scelte, ma di un disegno più generale e silenzioso. Quindi, non rincorre più il “quadro che non ha ancora comprato o posseduto”, ma cerca di accostarsi alla promozione dell’evento, così come lo intende e lo sottoscrive Palma Bucarelli in un bel testo del 1969 che “distilla” l’opera di Pascali. Intorno al ’70, il boom delle gallerie a Soho è il sintomo che nell’Occidente capitalistico definisce la forma del lavoro artistico che si affaccia alla società del tardo fordismo. Dal 1970 non è solo l’America che con Soho ha compiuto un’altra conquista sul “ traffico artistico”, ma anche l’Europa dialetticamente, grazie ad un nuovo assetto, ha cambiato i suoi ritmi e l’accelerazione di essi, facendo fronte ad un’alternativa all’East Village. Ed è proprio tra la fine degli anni ’70 e gli ’80 che, mentre da un lato si affermava l’art pour l’art, legata ad una pittura celebrativa e recitativa di miti e leggende fantastiche, e dall’altra agiva l’arte dell’intervento sociale, della scultura come site specific, della public art, del teatro d’artista, si faceva strada il lavoro di Lidia Carrieri, che dal 1979 al 1981 portava avanti gli Incontri di Martina. Incontri che videro passare artisti come Mirella Bentivoglio, C. Kubisch, F. Plessi e forse ancor prima Carrino, Riccardo Dalisi, A. de Angelis, G. Desiato, Nato Frascà, Fulvio Irace, Ugo La Pietra, M. Russo e M. Staccioli, molti dei quali oggi fanno parte del fondo Noesi. Abbiamo ricordato che il simbolo di questa collezione è divenuta poi La Trappola di Pascali, precisamente quella che viene indicata come la Trappola chiusa, realizzata dal celebre artista pugliese, poco prima della scomparsa, con della lana d’acciaio intrecciata. Il lavoro rimane una delle sculture più affascinanti realizzate dall’artista pugliese e si inserisce in quella parte della sua poetica che forse per gli americani è meno annoverabile nell’area pop, propendendo di più per una sorta di drammatis personae concettuale e noeticamente europea. Ricordando che Pascali lavorò per la pubblicità come grafico e per la televisione come scenografo, si può sottolineare meglio di qualsiasi congettura storica, quanto il suo sguardo abbia avuto a che fare con una linea mediale dell’arte italiana. È vero che egli ebbe ad esordire con opere come Labbra rosse (1964) e con la serie delle armi (cannoni, mitragliatori a grandezza naturale), cariche di un forte spirito di denuncia e da un certo sottinteso ironico, ma affermò quel breve lustro del suo lavoro anche con lavori di forte motivazione concettuale ed emotiva. Pascali, allestendo diverse installazioni sul tema della natura o pensando all’agibilità del corpo umano, con la Trappola sfiora la “cosa leggera, che non spiega proprio niente e che abbiamo dentro di noi” (in C. Lonzi,1969).Su questa concezione dello spazio della scultura e della sua praticabilità più concettuale e razionale nella Collezione Noesi si ritrova inoltre il lavoro di un reduce del Gruppo 1, altro raffinatissimo pugliese, che è Nicola Carrino. Carrino utilizza legno, ferro e alluminio per dar forma ad oggetti modulari, come ad esempio delle sequenze di parallelepipedi scalari, che si pongono come struttura concreta della presa dello spazio. Di Carrino, il fondo Noesi conserva il grande lavoro Trasformazione dello Spazio/Ellissi (scultura ferro, 1981), la “scultura della forma del luogo si trasforma con l’identificazione del luogo stesso”.Un’altra parte della collezione storica riguarda il periodo in cui la gallerista di Martina Franca incontra artisti che sono vicini al mondo della performance e della ricerca mediale come Plessi, Orlan, Kubisch, IFP (questo gruppo francese lo troveremo poi anche nell’area delle mostre praticate dalle Imprese mediali all’inizio degli anni ’90 a Roma), nonché la singolare avventura del graffitismo che sostiene nomi come Rammelzee, Ronnie Cutrone, Daze, Phase too, Futura2000, Toxic e forse anche Haring ed altri. Plessi, quando venne a Martina Franca, aveva già partecipato alla Biennale di Venezia del 1970 e nel 1973 aveva già realizzato Acquabiografico e Travel, e in quell’occasione, sfruttando riferimenti a segni territoriali, insieme a C. Kubisch realizza Tam-Tam video-concerto-performance, che vale come installazione in progress. La Galleria Carrieri provenendo da quell’area critica che prima indicavamo con l’affermazione di Soho e dell’East Village si affeziona al lavoro di un leader dei graffitisti come Rammelzee che lascia in eredità al fondo Noesi una Fiat cinquecento (1984) tutta reinventata, oppure un lavoro fantasmatico come Mettropposttersizer. Epilogue futurisme THE Weather vainer ,720 2 (1985-86) costruito con ferro, zinco, oggetti vari e spray che è la testimonianza effettiva del suo forte montaggio linguistico, una risposta spray alla produzione capitalistica e una rivelazione della teoria delle “lettere armate” o anche “panzerismo iconoclasta” o “futurismo gotico”. Un lavoro che, in termini popolari e quindi pre-rap e hip hop, anticipa le suggestioni della cultura fantascientifica del cyberpunk che di lì a poco si va affermando, prima in America e poi in Europa. Ma subito dopo la Carrieri riprende l’esperienza sulla fotografia, realizzata tra la fine degli anni Settanta e inizio ’80 insieme a Mario Cresci, e si dirige verso i light-box di Alfredo Jarr. L’attività della Carrieri in quel periodo si fa protagonista della fase gestativa del Medialismo, attraverso la mostra Metessi, che si tenne a Roma nella sede di Piazza di Pietra. Nel 1989, con la mostra Metessi, la Carrieri riprende i fili di un discorso storico iniziato con una linea performativa-concettuale che da Desiato giunge sino alla poesia visiva e a Fluxus e che contemporaneamente si concretizza con artisti che allora stanno per emergere e che lavorano sui linguaggi più radicalmente concettuali del mediale come: Maurizio Arcangeli, Maurizio Cattelan, Emilio Fantin, Premiata Ditta, ABM Computers, Marco Formento, Ivano Sossella, Tommaso Tozzi, Cesare Viel, Luca Vitone, etc… Quelle immagini e quelle opere già da allora miravano a proporre una rappresentazione intricata della realtà, di un mondo sovraccarico di fotografie, sembianze, disegni analitici di microsistemi di mondo e di interazioni comunicative. Ispirata alla relazione sensibile che nel Parmenide di Platone ci racconta il rapporto tra le cose sensibili e le idee, Metessi si rivolge contro le fantasie della mimesi e contro le forme di categorizzazione dell’estetica classica, considerando una forma di interazione più concreta che si cala nelle cose concettuali del mondo. In sostanza si tratta di una metessi che rimane principio di reciprocità mediale e sostanziale.

Gabriele Perretta

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