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L’UCCELLO DI dIO / Fare fuoco
L’installazione è ispirata alla fiaba russa dell’uccello di fuoco dove sulla linea della narrazione s’innestano ragionamenti sull’ideale di libertà e sulle fenomenologie di causa/effetto.
La figura del principe Ivan che si materializza all’interno della sala adempie ad un compito alquanto banale. Al centro della stanza è in attesa un’asta vincolata ad un piedistallo marmoreo esagonale che termina in sommità con un cerchio metallico necessario a sostenere una piccola gabbia per volatili. La figura si avvicina e apre la gabbia, introduce il braccio all’interno e appicca il fuoco ad un uccello/torcia in fili metallici, tessuto e pece. E’ l’uomo che crea l’uccello di fuoco; una figura fantastica figlia dell’immaginazione, una sorta di atto di fede.
La metafora è sul concetto di liberazione… affinché si materializzi l’emblema della propria liberazione bisogna varcare i confini di uno spazio mentale o fisico che pongono un vincolo di difficoltà. Ciò è alla base di tantissimi rituali religiosi che comportano nella loro applicazione il superamento di un’imprescindibile purificazione. Il fuoco, portatore di luce e di calore è un mezzo adeguato, attraverso il suo potenziale distruttivo, ad introdurre il nuovo stato quasi al pari delle proprietà riconosciute all’acqua. Un atto volontario che permette l’accesso ad una condizione spirituale più evoluta. In perfetta simmetria con quanto accade nella fiaba, ad un uccello di fuoco che sembra composto da materia divina ed accorre in soccorso del protagonista per la libertà che gli è stata concessa, corrisponde un uccello da incendiare che trova la sua identità simbolica solo attraverso la libertà, infatti gli si da fuoco mediante l’apertura della gabbia.
La libertà è ripudiare l’idea che possa esistere una barriera che nega la simbiosi con l’immateriale o che sia necessario rendersi meritevoli di un esistere più alto. Siamo noi stessi che creiamo l’uccello di fuoco (la nostra meraviglia),  così come siamo noi stessi che trasformiamo la realtà in una gabbia. Tra le righe della favola la nostra mente travisa una metafora, “l’uccello di fuoco” in modo molto più terreno e meno fascinoso potrebbe essere semplicemente un volatile dai colori sgargianti. Anche la gabbia introduce altri indizi… chi può dire con assoluta certezza qual’è l’interno e qual’è l’esterno? Provocatoriamente lo sportello si apre verso l’interno, ciò dovrebbe suggerire che siamo soli, attraverso la volontà, a superare una  personalissima prigionia. Quindi, se non riusciamo ad essere fautori della nostra stessa libertà, come potremmo essere il tramite o gli esecutori della libertà di tredici bellissime fanciulle o di chicchessia? Per questo motivo al di sotto della base del supporto per la gabbia, quasi nascosto, è presente l’uovo che nella fiaba racchiude l’anima del Re Kaschchei, un uovo minacciato nella sua integrità dalla stessa installazione poggiata su quattro volumi di ghiaccio. La temperatura dell’ambiente porterà al progressivo scioglimento del basamento causando l’inevitabile distruzione dell’uovo, un atto non volontario ne conseguente alle rivelazioni dell’uccello di fuoco, bensì un avvenimento naturale addirittura quasi indipendente dall’accensione della piccola scultura (il riscaldamento dovuto alla sua combustione non influisce in maniera sensibile sulla temperatura dell’ambiente, ma intende suggerirlo concettualmente). L’uovo è un simbolo di vita ed è il mattone iniziale del futuro che verrà, rappresenta “l’origine” e non a caso nella fiaba russa l’uccello di fuoco individua nella distruzione di tale oggetto la soluzione alla prigionia e la rottura dell’incantesimo.
L’installazione L’UCCELLO DI dIO sormonta il suo concetto d’origine testimoniando la fragilità di un qualsiasi ecosistema; l’uccello di fuoco che nasce per volontà dell’uomo è l’effetto della maternità naturale, ma e anche l’operato umano attraverso il libero arbitrio. L’artificio, la costruzione dell’uomo, fonda le sue basi su un preciso punto di partenza: l’ambiente. In un parallelo tra conquiste umane e surriscaldamento del pianeta viene rappresentata l’instabilità di qualsiasi costruzione che non tiene conto della sostanza su cui s’insedia.  Il ghiaccio non è presente con un volume casuale: si tratta dell’acqua che un imbuto può contenere al suo interno. L’imbuto è un “regolatore di flusso” e può far pensare spontaneamente  all’irreggimentazione di una risorsa importante quale l’acqua. Da qui l’inversione concettuale, l’acqua non viene incanalata, ma al contrario, stagna in un cambio di stato e si disperde in scioglimento piramidale.
L’indolenza ad operare secondo una buona prassi di sostenibilità anche intuendo tutte le implicazioni è il rischio più grande per la stabilità di condizioni di vita e di socialità consone ad un livello di civiltà che potremmo, sulla carta, ampiamente permetterci.
La vera liberazione non coincide con il libero arbitrio, ma è la capacità d’intuire le dinamiche naturali e di accordarsi in equilibrio ad esse. “Liberarsi” di un modo di pensare permette di vivere con una percezione diversa la realtà. A questo punto qualsiasi argomento può essere traguardato da altri punti di vista, anche il più ostico, ad esempio quello del disarmo.
Il disarmo è un obiettivo in apparenza facilmente perseguibile, un atto di volontà e di non belligeranza, ma lo slancio esistenziale verso il bene e la pace non tiene conto materialmente degli effetti secondari. La combustione di una pistola di plastica che sprigiona fumi tossici, è emblematica di tutte le conseguenze che può comportare una nuova linea di pensiero. Basterebbe chiedersi che fine farà l’uranio o cosa comporterà lo smantellamento di complessi strumenti di offesa da far riconsiderare con molta attenzione l’ottimismo della grande voglia di pace che ci accompagna e non ci permette di distinguere pericoli e scenari ancora più inquietanti.

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